Come gestire i dati che vengono generati dalla Digital Economy.
Il 29 settembre l’Unctad – la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo – ha pubblicato il suo Digital Economy Report 2021, nel quale evidenzia la necessità di un nuovo orientamento nella gestione dei dati digitali. Si parla di un orientamento olistico, che faciliti una più libera circolazione e condivisione dei dati fra i Paesi del mondo, considerando anche – se non soprattutto – le nazioni in via di sviluppo. Quello aperto dall’Unctad è un tema cruciale per la nostra era, l’epoca della data economy, ossia l’economia reale dei dati basata sulla capacità delle imprese di gestire la mole crescente di dati che ricaviamo dal digitale. Il Parlamento Europeo stimava che la data economy contasse per più del 3% del PIL nel 2020, cifra che mette in risalto come i dati siano una risorsa fondamentale, da valorizzare da un lato e da proteggere dall’altro. Valorizzare e proteggere sono le chiavi per comporre uno degli squilibri messi in luce dal rapporto dell’Unctad: “L’attuale panorama frammentato dei dati potrebbe creare più spazio per danni sostanziali legati a violazioni della privacy, attacchi informatici e altri rischi”, è il commento del Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres.
Tecnologia, esigenza di valorizzazione e di tutela si incrociano dunque nel bel mezzo della Digital Economy, da cui scaturisce la Data Economy. Cloud, IoT, AI, Realtà Aumentata e Realtà Virtuale, giusto per dirne alcuni, sono gli strumenti che danno vita alla Digital Economy e di conseguenza all’economia del dato, a sua volta legata a doppio filo a tutto il capitolo Big Data e Analytics. Laddove è la tecnologia a dar vita ai dati, è la stessa tecnologia a rappresentare il supporto fondamentale per la loro gestione, analisi e valorizzazione in ottica strategica per l’impresa.
Come qualsiasi processo, anche quello di raccolta ed elaborazione dei dati ha una sua catena che parte dall’acquisizione per poi passare ad analisi, gestione, archiviazione e infine utilizzo. Attività che hanno un impatto economico positivo sulle imprese e che, d’altro canto, portano con sé dei costi, invero in costante diminuzione negli ultimi tempi. Diminuzione legata alla larghissima diffusione della rete internet che ha permesso una riduzione drastica dei costi legati allo scambio dei dati, fenomeno analogo a quello registrato con i sistemi Cloud per l’elaborazione e l’archiviazione.
Naturalmente non esiste un solo approccio alla gestione del dato: notiamo al contrario tendenze ben precise in ciascuna delle principali economie mondiali.
Gli Stati Uniti, per esempio, perseguono la filosofia del libero mercato anche nell’economia digitale e nella data economy. Nella pratica, lo spazio digitale è aperto e basato sull’interoperabilità per agevolare un libero flusso di informazioni, il cui controllo è pressoché totalmente in capo al settore privato. All’opposto troviamo la Cina che, come in ogni altra questione, privilegia un importante intervento governativo in tutte le branche dell’economia, compresa quella digitale. Secondo l’approccio cinese, è lo Stato il responsabile del controllo dei dati condivisi tanto all’interno della nazione che all’esterno. L’Europa rappresenta una sorta di terza via rispetto a quella statunitense e a quella cinese. L’Unione Europea sembra aver sposato un approccio più umanistico, antropocentrico, in cui è il cittadino a essere l’attore primo del controllo dei dati a tutela dei diritti fondamentali della persona. Non a caso, anche il GDPR è stato strutturato in questa direzione.
Fin qui tutto bene, quantomeno a livello teorico generale. Scendendo nell’operatività, ci troviamo dinanzi a un mondo iperconnesso che tratta però le stesse tipologie di dati e informazioni in modi diversissimi, affermando quindi una nuova forma di digital divide: il data divide. Anche qui, l’Unctad non ha mancato di dire la sua, sottolineando l’esigenza di armonizzare le differenze fra i vari Paesi in termini di accessibilità e utilizzo dei dati. Al di là delle potenze economiche, c’è un “sottobosco” di Paesi emergenti che per ora funge da fornitore di dati grezzi che confluiscono nelle piattaforme digitali globali, capitalizzate per la quasi totalità (90%) da Cina e Usa. L’idea europea, dal canto suo, è più allineata a quella dell’Unctad, che acclama un approccio che consideri il dato digitale un bene pubblico globale, per cui tutti i Paesi dovrebbero avere pari accesso ai dati ed eguali possibilità di utilizzo.
Non c’è dubbio che, ancora per un po’, il valore economico dei dati continuerà ad agitare il dibattito internazionale pubblico e privato, come qualsiasi tema che porta con sé interessi e guadagni. Basti pensare che gli asset di Facebook, secondo una stima, valevano circa 6 miliardi di dollari al momento della quotazione in Borsa nel 2011 a fronte di una valutazione di mercato della società che ha velocemente superato i 100 miliardi di dollari.
Dal punto di vista normativo, l’Europa ha segnato il più grande passo avanti sinora nella protezione dei dati degli individui, nonostante il GDPR non si occupi direttamente di proprietà dei dati e di valorizzazione economica degli stessi. Bene, ma non benissimo dal momento che, come visto, gli Stati Uniti e la Cina si comportano in modo assai diverso. Per riassumere, la battaglia dell’economia dei dati nei prossimi anni dovrà stabilire parametri omogenei per la valorizzazione, la gestione e la tutela del dato. Per noi che facciamo impresa, il modo in cui tratteremo i dati diventerà un asset sempre più importante, un po’ come già accaduto per la sostenibilità. A noi – e ai nostri legislatori – l’opportunità di indirizzare al meglio questa ulteriore opportunità dell’economia digitale.
Leggi l’articolo su “Quale Impresa”, la rivista nazionale dei Giovani Imprenditori